La piazza è il fallimento della Rivoluzione

Per quali misteri certe mattine ci svegliamo con la smania di demolire ogni cosa, viva o inerte che sia? Quando il diavolo annega nelle nostre vene, quando le idee sono convulse e i nostri desideri fendono la luce, gli elementi si incendiano e bruciano, mentre la loro cenere ci scorre fra le dita.

Emil Cioran, Sommario di decomposizione

Siamo stati educati a considerare la piazza una prova di forza sempre buona e doverosa per esprimere le nostre idee, perché come cantava Gaber: «C’è solo la strada su cui puoi contare […] c’è solo la voglia e il bisogno di uscire, di esporsi nella strada e nella piazza». Siamo stati istruiti a far culminare nella piazza tutte le rivendicazioni, le proposte, le speranze e le idee pazientemente coltivate nel privato, elaborate nei circoli Arci accanto alle bocciofile, nei dispendiosi e soporiferi congressi di partito, nelle ormai poco affollate stanze di rappresentanza sindacale e, ultimamente, nelle aule virtuali dei social network. Ma mentre il suo mito rivoluzionario e messianico continuava ad essere magnificato,  la piazza è oggi la fine e la morte delle rivoluzioni.

Se si guarda agli scontri del 15 ottobre a Roma e a ritroso si ripercorrono le immagini delle ultime grandi piazze occidentali (un discorso a parte meriterebbero quelle arabe), si possono cogliere i segni dell’assoluta inefficacia dei cortei. Genova fu la fine insanguinata del movimento no-global, lo scioglimento e la dispersione dei Social Forum, la vittoria totale ed incontrastata della globalizzazione, specie quella finanziaria.  Prova ne è che i G8 si susseguono senza sosta, mentre la gente di Seattle latita.  Le piazze arcobaleno che in tutto il mondo mobilitarono milioni di persone tra il 2001 e il 2005 contro le guerre in Afghanistan e Iraq, furono lo svuotamento delle idee pacifisti, indebolite a tal punto da non sapere più quale partito difendere durante il recente endorsment della Nato alla ribellione libica.  I girotondi di Nanni Moretti non hanno fatto altro che siglare l’impotenza della sinistra davanti al potere berlusconiano, la sua incapacità di governare e di programmare. E le ultime manifestazioni femministe chiudono con le donne. Che passato il tormentone di Ruby avrebbero ancora da dire qualcosa, o no?

La piazza postmoderna, ovunque abbia mostrato la sua vera natura, si è sempre dimostrata l’inizio della fine dei movimenti che l’hanno animata. Per rispondere al perché  questo sia accaduto dobbiamo riflettere su quali siano le peculiarità della piazza contemporanea e, soprattutto, quali caratteristiche la portino al suicidio, a quel movimento hegeliano, il quale, nell’istante in cui definisce e rende  visibili i tratti di una idea, chiama il suo contrario a combatterla, innescando uno scontro che porta al superamento dell’idea stessa.

La prima causa di morte delle piazze postmoderne è la violenza. Qualunque movimento non abbia saputo trattenere la voglia di devastazione e placare la rabbia bruciante che sempre covano le maggioranze silenziose e senza potere, è stati immediatamente delegittimato delle sue rivendicazioni e, passando dalla parte del torto, ha presto perso qualunque incisività sulla voglia di cambiamento delle persone.

La violenza è il feticcio attraverso il quale si mostra l’impotenza di un popolo a cambiare a la propria storia. A nulla valgono i fantasmi della Comune parigina della Rivoluzione d’ottobre: questo è il secolo di Tiananmen, la piazza che – come vuole la storiografia maoista – non solo deve essere sempre vuota, ma sempre lo è stata, dall’alba dei tempi.  La piazza che non cambia nulla e insegna ancor meno. L’uso della forza da parte dei manifestanti crea al più un rimosso di colpa e condanna che, una volta raggiunta la massa, la inibisce non solo nelle azioni future, ma nell’impianto stesso delle idee portate avanti. E crea l’effetto di irrigidire l’ordine pubblico alle istanze di cambiamento.

Ma la cecità della rabbia degli incappucciati che da oltre 10 anni compaiono nei cortei a sfogare il loro nichilismo è soprattutto quello che Herbert Marcuse, filosofo della scuola di Francoforte, chiamò la «desublimazione repressiva». Cioè la compressione dei nostri sentimenti repressi che una volta esplosa in questi atti scoordinati, ma sempre controllati e limitati (la violenza di piazza non riuscirà mai a capovolgere di punto in bianco un sistema che non ha più basi uniche e capi identificabili), permette all’intero sistema di continuare per la sua strada, come se niente fosse.  Slavoj Zižek, il grande filosofo sloveno del postmoderno,  interrogandosi sulle analoghe vicende di saccheggio e distruzione dell’agosto londinese, colpisce nel segno quando dice: «Quello che abbiamo visto sulle strade britanniche non era un uomo ridotto a “bestia”, ma la versione denudata della “bestia” prodotta dall’ideologia capitalista».

Sempre seguendo Marcuse, è come se la violenza delle piazze postmoderne fosse paragonabile alla pornografia a causa della quale la rivoluzione sessuale diventa onanismo da cameretta.  La piazza degli incappucciati, disarticolata in tanti individui sconnessi e solitari nella loro azione violenta, appartenenti galassie antagoniste assai diverse (anarchici, operai, centri sociali di estrema sinistra e destra), è un porno efficace a scaricare le pulsioni primitive, lasciando inalterato il sistema in nome della rivoluzione del quale si agisce.

L’immaterialità della vita contemporanea è un’altra causa del fallimento della rivoluzioni di piazza. La pornografia della violenza è infatti ancora più frustrata dal momento che non può identificare i veri colpevoli dell’ordine del mondo contemporaneo. Lo Stato? Le banche? Oppure la Borsa e le agenzie di rating? Forse la finanza? Ma chi sono, esattamente questi nemici della piazza? Chi incarna lo spirito della speculazione, ad esempio? Impossibilitati a colpire il cuore del sistema che odiano, i manifestanti postmoderni sublimano la loro azione presunta dirompente sulle forze dell’ordine, quasi potessero cancellare in un sol colpo la numerosa classe dirigente che ci governa. Ma la Polizia, per quanto simbolo del potere, non sarà mai un obbiettivo sufficiente alla Rivoluzione.

Terzo e non ultimo, la piazza postmoderna fallisce la Rivoluzione perché non è uno spazio organizzativo efficace. Per farsi un’idea della confusione degli indignati basterebbe leggere il loro primo manifesto, stilato dai ragazzi che a maggio occuparono per settimane Puerta del Sol. «Alcuni di noi si considerano progressisti, altri conservatori. Alcuni sono credenti, altri no. Alcuni di noi hanno ideologie ben chiare, altri sono apolitici. Ma siamo tutti preoccupati e indignati per il panorama politico, economico e sociale che ci circonda: la corruzione dei politici, degli imprenditori e dei banchieri che ci rende impotenti e ci impedisce di avere voce in capitolo». Belle parole, ma l’eterogeneità del movimento, vasta tanto quanto quella di chi combattono, come farà a passare dal piano di azione di disturbo a quella di governo. Perché è ovvio che l’obbiettivo di tutti gli indignati è cambiare il governo, cioè i timonieri (banchieri e politici e imprenditori) che ci hanno condotto nella recente tempesta della crisi.

Gli indignados liquidano l’intera classe politica, eppure avanzano una serie di richieste.  Rivolte a chi? Ma soprattutto, da chi dovrebbero essere esaudite? Non dalla gente: gli indignados spagnoli come quelli di tutto il resto del mondo non si sono mai citati, per il momento, come attori del che reclamano. E non hanno indicato neppure una delle forze politiche in campo verso la quale convogliare la rappresentanza delle loro istanze.

Ma allora, ed è questa la causa ultima del fallimento delle piazze, tutta la rabbia e la violenza espresse in questi luoghi che fine faranno? Verranno raccolte in un programma in grado di riformare davvero la società, in “persone politiche” cui affidare il potere di mutare il sistema, o piuttosto esprimono, come ha recentemente sostenuto Evgeny Morozov, autore de L’ingenuità delle rete, «rivoluzionari senza rivoluzione»?

Ora che la rabbia verso la crisi ha trovato negli Indignati il suo nome, scatterà la gara dei politici di professione per dotarla di un partito. Visto e considerato che nessuno di loro, dalla piazza, sembra intenzionato a trasformarla in qualcosa che possa mettere davvero in crisi l’esistente.

Comments
2 Responses to “La piazza è il fallimento della Rivoluzione”
  1. Eliano Rossi ha detto:

    Caro Gabriele,

    ho letto con molto interesse il tuo post e mi sento di aggiungere qualche riflessione che non concorda con le tue conclusioni. Ma come ben sai, è così che si aprono i dibattiti e in fondo, come diceva Popper, è così che le idee si rafforzano e le teorie acquisiscono valore.
    Sei convinto che le piazze dell’ultimo decennio hanno significato l’inizio e la fine stessa dei movimenti che le hanno convocate. Citi i “No-global” di Genova, il “Popolo di Seattle”, I Social Forum, i “girotondini” e i pacifisti. Affermi che tutti questi movimenti sono morti nel momento in cui sono nati, perchè la loro formazione era troppo eterogenea e non si poneva come strumento ultimo del cambiamento.
    Io rilevo un’altro dato da queste piazze e, cosa che non ti troverà d’accordo, dico che mi sembrano molto più mature di quelle dei nostri genitori. Mature per vivere e manifestarsi nel sistema che le ospita: la democrazia. Mature perchè non hanno l’arroganza di porsi come strumento esecutore del cambiamento, ma vogliono farsene promotori, come invita a fare la democrazia stessa. Chiedono, in fondo, ai politici di fare ciò per cui sono stati votati e per cui sono pagati. Tornare a fare politica, intesa come mediazione dei bisogni dei governati. Chiedono equità sociale, chiedono una redistribuzione delle risorse. Chiedono di non pagare un debito che non hanno contratto. Chiedono di potersi giocare la partita della vita con le stesse possibilità che hanno avuto i loro genitori. E lo fanno in modo democratico.

    Non ci sono olisimi. Non ci sono religioni dogmatiche che guidano le piazze di oggi. Non si cerca di imitare la “rivoluzione culturale” di Mao. E l’aspetto più bello delle piazze di oggi, che mi sembra che tu non abbia colto, è che non hanno un’ispiratore dall’alto. Non c’è una Russia o una Cina o un Che Guevara che ammaliano le piazze e le riempiono di parole che sembrano lenire i mali del tempo. Queste piazze sono spontanee, sincere. Sono belle e rispettabili anche solo per questo.

    Si chiede alla politica e alla finanza di ricordarsi perchè esistono e qual’è lo scopo della loro esistenza. La finanza, come la politica, non nasce per rubare. E’ questo che si vuole ricordare a quelle persone chiuse nelle stanze del potere.

    Non concordo neanche sul fatto che i movimenti dell’ultimo decennio siano morti appena nati. Anzi. Mi sembra che ogni movimento inglobi le richieste di quello precedente. La piazza cresce, Gabriele. Trovi tanta differenza tra le persone che sfilavano a Seattle nel 1999 e quelle che hanno sfilato nelle piazze di tutto il mondo pochi giorni fa? E trovi tante differenze tra questi e i pacifisti? La piazza evolve al passo con i tempi, molto più della sua classe dirigente, che invece sembra sempre più chiusa nel palazzo, distaccata dalla realtà che la circonda. Ricorda molto quel famoso episodio che vedeva Maria Antonietta protagonista: “Sua maestà, il popolo ha fame! – Dategli le brioches”.
    Beh, la piazza vuole ricordare a Maria Antonietta che gli serve il pane, non le brioches. Non lo farà con i forconi, almeno fino a quando vedrà la possibilità di realizzarlo pacificamente.
    Il giorno in cui la piazza imbraccerà le armi per porsi come strumento e fine del cambiamento, probabilmente, la nostra democrazia 1.0 morirà. La democrazia, non la piazza.

    Con stima e sincerità,

    E.

    • Gabriele Pieroni ha detto:

      Grazie Mille Eliano per avere inaugurato i commenti del blog. E grazie, soprattutto, per le parole del tuo commento.

      Il post che ho scritto, come spesso mi accade di fare, è una provocazione. Dura, senza sconti e tranchant. Ma così deve essere, per poter aprire una riflessione che non abbia i toni melliflui e accondiscendenti di certa classe dirigente nostrana, amica di tutti e quindi di nessuno.

      Mi concentrerò, nella mia risposta, su una delle tue frasi, che per altro condivido in gran parte, specie quando dici che i movimenti si evolvono.

      Nella mia riflessione ho cercato di scorgere i limiti delle piazze di oggi, assai diverse da quelle del secolo scorso. Se un tempo scendendo a Parigi e dando l’assalto ai punti nevralgici dello stato (ben identificabili) poteva compiersi una rivoluzione effettiva, oggi non è più così. La piazza è solo il culmine di una elaborazione di cambiamento che deve essere fatta altrove. Ed è qui che noto la debolezza delle piazze del XXI secolo. Fuori da esse spesso non si approfondisce un’azione politica continuativa ed organizzata, ma si è individui soli e frustrati. Con il risultato che la piazza è l’unico momento collettivo di costruzione tanto spinto e forzato da fungere da essere distruttivo e basta (come è stato Genova e come è accaduto ieri).

      Lenin, che le piazze le conosceva bene, faceva scrivere agli angoli delle strade STUDIATE, STUDIATE, STUDIATE! Questo per rivendicare come la piazza, di per sé, valesse ben poco se non supportata da una riflessione più ampia e più incisiva sugli attori e i mezzi della rivoluzione.

      Le piazze di oggi, a volte, sono una scusa per non studiare. Per non dotarsi di un movimento politico che trasformi la politica.

      Ecco perché non sono d’accordo quando tu scrivi:

      “Chiedono, in fondo, ai politici di fare ciò per cui sono stati votati e per cui sono pagati”.

      I politici – come tu rilevi – oggi sono così distaccati dalla piazza che a loro non si può (e vorrei dire non si deve) chiedere più nulla. Per la loro stessa natura di difensori del palazzo e non delle idee della piazza, conserveranno il loro potere e il loro status, sempre.

      Fino a che una piazza non si doterà di strumenti incisivi e organizzati, per entrare nell’agone politico e stravolgerlo.

      Come possiamo chiedere di cambiare la finanza e gli strumenti che hanno causato la crisi a chi quegli strumenti li HA CREATI o ha PERMESSO CHE VENISSERO CREATI?

      La democrazia è o non è partecipazione? Oppure solo rappresentanza. Vorrei oggi che le piazze sedessero dove si premono i bottoni del potere.

      Solo così – e democraticamente – si può realizzare la Rivoluzione. E senza violenza.

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