Lucky Basterds (and very rich)

Se sei ricco non menartela: è solo una questione di fortuna. Le ricerche dello psicologo Daniel Kahneman, vincitore del Nobel per l’economia nel 2002, mettono in luce come il tanto biasimato 1% della popolazione mondiale, quello che gestisce le ricchezze oggi indignano il restante 99%, non si è dovuto guadagnare un solo centesimo del proprio benessere. O quasi: «Se la propria fortuna economica dipendesse soltanto dagli sforzi fatti per ottenerla, allora le donne africane dovrebbero essere miliardarie», scrive il giornalista George Monbiot, che sulle colonne del Guardian ha dato conto dei lavori di Kahneman.

La ricerca del celebre psicologo di origine israeliana riguarda la percezione del successo e la strategia di  autocensura che i grandi ricchi del pianeta mettono in atto per giustificare i loro risultati. Analizzando il rendimento di 25 grandi wealth advisor, i manager incaricati di gestire i patrimoni delle più ricche famiglie del pianeta, Daniel Kahneman ha scoperto che il coefficiente di quanto hanno fatto guadagnare ai loro clienti, spalmato su otto anni, è pari a zero. Anzi a 0,01. Un risultato di cui sicuramente sono a conoscenza, loro quanto le società per cui lavorano, ma l’alto ruolo sociale ed economico che tutti questi attori «credono di rivestire», porta a mistificare e a mutare in un giudizio positivo. Perché, come scrive Kahneman, questi traders «devono credere di essere professionisti competenti, che svolgono un lavoro gravoso».

La notizia non è che un singolo consulente in otto anni non riesca a creare un valore un rendimento ridicolo, la Borsa riconosce che gli investimenti in azioni danno frutti consistenti solo nel lungo periodo e che nel breve tutti vincono e perdono in maniera aleatoria. A stupire e che le differenze fra advisor e advisor siano inesistenti: «La correlazione dei risultati avrebbe dovuto mettere in luce l’abilità di un candidato rispetto agli altri nel gestire il portafoglio dei propri clienti», ha scritto Kahneman. «Ma sono rimasto impressionato dal fatto che questa differenza non esiste». Per l’autore della ricerca il quadro che ne esce è inequivocabile: i risultati degli investimenti in azioni sono assimilabili alla teoria dei giochi d’azzardo più che a quella del rendimento di un lavoratore professionista, la cui affidabilità aumenta con l’esperienza. E come nei giochi d’azzardo non esiste un teorema in grado di anticipare con certezza assoluta i risultati, così la verità è che in Borsa negli ultimi cinquant’anni «si è giocato a dadi, piuttosto che a poker».

Che il successo degli speculatori fosse, su tutte, una questione di fortuna, aveva provato a dimostrarlo Terry Odean, professore di Finanza a Berkeley, California. Odean cominciò a studiare i risultati di 10 mila portafogli azionari di investitori su di un periodo di sette anni. Il professore di Finanza ha così analizzato oltre 163 mila operazioni. Un ricco carnet di transazioni che gli ha permesso di monitorare con precisione i momenti nei quali un investitore ha deciso di vendere un certo ammontare di azioni in un unico blocco, e poco dopo di acquistarne un altro. Un momento psicologicamente affascinante, nel quale si scontrano due idee opposte di futuro, entrambe percepite come vincenti ed entrambe basate su di un’analisi della realtà che, se non è inquinata da soffiate o inside trading, parte dagli stessi elementi.  Chi compra si aspetta che le azioni nel proprio portafoglio siano destinate a salire più di quelle che ha venduto. Così come chi vende si aspetta esattamente il contrario.

Il verdetto delle ricerche di Odean è stato drammaticamente negativo. Collegando le scelte dei traders al rendimento delle azioni dopo un anno, il professore di Berkeley ha dimostrato che le azioni cedute hanno avuto un trend assai positivo rispetto a quelle acquistate: maggiore, in media, del 3,2%. Un rendimento tale da superare i costi delle stesse transazioni effettuate. Non solo. Terry Odean assieme al collega Brad Barber, nel loro libro Trading is hazardous to your wealth, sono certi che i traders più attivi, quelli professionali, alla somma dei loro risultati abbiano prodotto un valore molto inferiore a quelli che invece hanno “scommesso” di meno, i quali hanno avuto ritorni più alti.

È chiaro che si tratta di una media e che non tutti i “giocatori” della Borsa hanno risultati simili: alcuni molto peggiori, altri davvero migliori. In Borsa Eppure, secondo Daniel Kahneman, questa sostanziale produttività zero in cui finiscono tutti gli sforzi degli analisti, dimostra come gli attori della finanza non siano consci della sostanziale «inutilità» del loro operato, e dell’inesistenza di una professionalità del loro lavoro. Perché, secondo Kahneman, la necessità di sentire che le proprie idee sono giuste, fa costruire alla nostra mente una storia che è coerente, non per forza vera. E nella stragrande maggioranza dei casi porta a valutare i successi in modo sproporzionato rispetto agli errori. Una illusione cognitiva tipica degli investitori professionisti e compulsivi, concude lo psicolgo israeliano, tanto che «molti traders avrebbero potuto non fare nulla, o farsi una doccia, piuttosto che continuare a perseguire le proprie previsioni». E i loro risultati non sarebbero cambiati. Anzi no, forse avrebbero potuto essere inferiori a 0,01.

Prepariamoci al meglio, al peggio

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